Osservate questo volto abbronzato, questi occhi grigi,
Questa barba, e queste intonse ciocche bianche sul collo,
Le scure mie mani e i modi silenti di chi è privo di grazia;
Eppure da Manhattan viene uno che sempre, all’addio, mi bacia lieve sulle labbra con amore robusto,
E io, alla biforcazione di una strada o sul ponte di un vascello, do un bacio in contraccambio,
Noi osserviamo questo saluto dei camerati americani per terra e sul mare,
Noi siamo due persone di questo genere, naturali e noncuranti.
W. Whitman
Perché ho voluto introdurre questa ricerca sull’Osservazione Partecipante con una poesia di Walt Whitman? Sostanzialmente per tre motivi, due leggeri, l’altro più consistente.
La prima è perché mi piace questa poesia.
La seconda è perché in questa poesia compaiono quattro parole: Osservate, Osserviamo, Naturali, Noncuranti.
La terza è perché nell’attenzione del poeta (in generale) e nella sua capacità di riferire utilizzando poche parole vi è l’essenza dell’osservazione partecipata.
Citare il Walden di Thoreau sarebbe troppo facile, rimanendo con lo stesso autore è interessante constatare come egli affermi “…temo che di anno in anno il carattere della mia conoscenza si faccia sempre più specifico e scientifico; che, in cambio di opinioni ampie quanto il cielo, io venga spinto alla limitatezza del microscopio”.[1]
Un’altra cosa dalla quale mi sembra di dover partire è che esiste una differenza sostanziale tra vedere e osservare, mentre la prima non prevede un atto intenzionale la seconda prevede anche una sorta di patto tra chi osserva e la sua “vittima”, ovvero quello di prendersi in carico anche l’interpretazione di ciò che è osservato quindi la sua comprensione:
“Osservazione. L’atto di divenire consapevoli degli oggetti attraverso gli organi dei sensi, e di interpretarli per mezzo dei concetti…”[2].
“..Colui che ha occhi designa espressamente presso gli Eschimesi lo sciamano, il chiaroveggente…”; “…è la funzione del terzo occhio, l’occhio frontale di Shiva. Se i due occhi fisici corrispondono al sole e alla luna, il terzo occhio corrisponde al fuoco. Il suo sguardo riduce tutto in cenere, esprimendo cioè il presente senza dimensioni, la simultaneità, distrugge la manifestazione…”[3].
Esiste un rapporto biunivoco tra l’efficacia dell’attività formativa e la capacità di attuare tecniche di rilevamento adeguate. Se in principio (e sappiamo che all’inizio ogni operazione o atto ha un certo grado di difficoltà) il tipo di atteggiamento necessario all’attuazione di una metodologia può sembrare innaturale, soltanto un’applicazione sistematica e continua può portare a concepirlo ed attuarlo come impostazione mentale.
Altro punto fondamentale è che un piano di Osservazione Partecipante richiede, per poter dare buoni risultati, oltre che capacità e sensibilità (che come ho detto prima si possono acquisire con l’esperienza) anche tempi più lunghi rispetto ad un tipo di osservazione di tipo non partecipativa, ma generalmente questo è valido per ogni tipo di metodologia qualitativa.
Una delle cose che per prima saltano agli occhi è il fatto che esistano tre fasi distinte nell’applicazione di una tecnica di osservazione, e mentre nella prima e nell’ultima esiste un alto livello di strutturazione, nella fase centrale padroneggia la libertà e la naturalezza.
Metodo etologico, metodo etnologico. Il primo è caratterizzato da un tipo di osservazione detta non partecipante non perché il ricercatore è altrove ma perché osserva comportamenti che lui stesso ha stabilito di osservare e non si comporta, come nell’altro caso, da buon selvaggio (ma non da sprovveduto) quindi rinuncia alla naturalezza in cambio della precisione; ma vedremo nella scheda tecnica come anche un’osservazione di tipo etologica possa essere funzionale ad un buon processo formativo.
Mentre il primo è un modo per approfondire il conosciuto, o quantomeno l’atteso, il secondo si mostra particolarmente efficace per studiare l’inatteso.
Gran parte dei metodi di genere qualitativo che abbiamo incontrato in questo seminario nascono in ambito sociologico, quello che andremo ad osservare nasce come necessità di osservare le “situazioni” senza opporre all’ evento la resistenza ed i filtri di chi la deve studiare, tutt’ altro, il tentativo per cui viene posto in essere questo metodo è la necessità di vivere una certa cultura, un certo modo di fare le cose e farle diventare proprie.
Nel libro “Sociologia qualitativa” una delle tecniche utilizzate nell’ osservazione partecipativa viene chiamata “Il metodo dello straniero”. Mi sembra che questo modo di chiamarlo sia particolarmente buono per semplificare quello che magari nel termine più noto non è immediatamente evidente.
Quando si utilizza la tecnica dell’osservazione partecipante non interessa tanto conoscere chi fa cosa, in quale modo, ma l’ interesse è di vivere la situazione che si è venuta a creare così da conoscere le leggi che la governano, in un dato contesto, un dato comportamento.
Non ci interessa, ci dice Schwartz, di apprendere il kung-fu ma di apprendere delle istruzioni, esattamente come fa un bambino quando apprende le regole sociali vivendole.
“…Se si studiasse la propria attività di visione, non si riuscirebbe a “vederla”; analogamente, se studiassimo l’impressione che facciamo agli altri, non riusciremo a farcene un’impressione…”[4].
Alcune domande
Vengono posti alcune domande alle quali va data risposta per poter applicare al meglio il “metodo dello straniero”:
- Che cosa deve sapere, o non sapere, esattamente il ricercatore?
- Quali compiti pratici dobbiamo assegnare al ricercatore?
- Come scegliere l’ambiente?
- Come scegliere un’identità?
- Come rendere ottimale il metodo dello “straniero” e come registrare le informazioni ottenute?
- Come scegliere lo straniero?
Tutti questi punti hanno una rilevanza particolare sulla formazione in quanto la riflessione su ciascuno di questi è funzionale ad un buon livello di osservazione o comunque a comprendere come andrà ad inserirsi il ricercatore nell’ambiente da studiare.
Le possibilità allora sono due, o una capacità di autoanalisi forte che permette di esplicitare il mio essere così da riconoscermi all’interno delle situazioni di studio o, come suggeriscono Schwartz e Jacobs, l’utilizzo di due o più soggetti, il ricercatore vero e proprio e lo/gli stranieri.
Sarebbe utile, per una buona registrazione degli eventi, utilizzare un registratore nel quale prendere nota degli episodi o quanto meno avere un blocchetto nel quale annotarli.
Interessante è l’utilizzo di una situazione più strutturata rispetto a quelle citate dove il ricercatore “straniero” si occupa di osservare un “indigeno” che si muove nel suo ambiente e di utilizzarlo come registratore e risanatore di dubbi.
Altrimenti è possibile l’ utilizzo di “nativi naturali”[5] per un feed-back sul proprio ruolo e sugli atteggiamenti.
Molto probabilmente ci ritroveremo più facilmente nella situazione di lavoro in solitaria o nell’utilizzo di un “indigeno – guida” e utilizzeremo queste tecniche in fase di pre-progettazione di un intervento formativo e presumibilmente di verifica dell’intervento stesso.
Ma questo come si concorda con il “buon selvaggio” citato prima, con lo straniero: come ho accennato qualche paragrafo fa è necessaria una sorta di coscienza del ruolo latente, come nel dormiveglia quando uno è incosciente ma capace di rispondere a domande ed è consapevole del proprio corpo.
Cosa fa il novizio
Altra tecnica è quella del novizio che si presta allo studio dei gruppi particolari ma che può essere utilizzata anche per:
- Diventare membri di un gruppo
- Ri-creare l’ignoranza
- Costruire una grounded theory
Nel primo caso, a differenza della teoria dello straniero, si chiede di rendere nota la propria appartenenza al gruppo che deve essere studiato e questa viene dimostrata soltanto attraverso la attestazione delle tipiche competenze del ruolo con il quale si deve confrontare. Così al ricercatore si chiede di essere sia specialista che osservatore dello specialista.
Nel secondo si chiede al ricercatore di farsi carico di apprendere qualcosa ex-novo in modo da poter analizzare tutto quello che è l’iter che si segue o, attraverso la discussione con gli altri, cominciare a studiare come nasce la sequenza del discorso.
Per quanto riguarda il terzo punto possiamo sfruttare una situazione di osservazione partecipante per costruire una “grouned theory”. Certo non è obbligatorio o possibile dire “creo una teoria di base”, ma può succedere che da attività improvvisate possano nascere spunti per costruire teorie vere e proprie.
A questo punto viene analizzato un problema fondamentale: il ricercatore può conoscere attraverso l’esperienza personale o attraverso i resoconti di osservatori esterni, ma nel momento in cui deve riesporre o stendere un resoconto di ciò che ha esaminato si rifà a costrutti personali, a descrizioni che sono “…una raffigurazione delle raffigurazioni che le altre persone si sono fatte della realtà”[6].
Esiste allora la possibilità che le persone a cui devono essere descritti i fatti vengono fatte partecipare direttamente alle situazioni dopo averle istruite con le principali informazioni. Questo consente di seguire i fatti con sufficiente coscienza e sufficiente innocenza da far percepire ciò che era stato colto in maniera abbastanza puntuale.
Si sono dimostrati utili a questo proposito delle descrizioni vaghe, dove la vaghezza è concordata (si concorda con l’esperienza) e quindi risponde a canoni che sono validi per tutti e due i ricercatori. Al contrario la puntualità delle descrizioni ha mostrato di produrre incertezza la dove si viene a creare un punto di incertezza, oppure produrre intasamento dove si cerca l’applicazione perfetta di istruzioni perfette (Lo sciopero bianco è un esempio di quest’ultimo caso).
Quando si segue un tipo di ricerca in osservazione partecipante, si può creare la necessità di utilizzare più osservatori (stranieri, novizi) questo per poter dare risposta alla richiesta che viene dal naturale svolgersi degli eventi (Situazioni complesse in ambienti complessi). Possono essere utilizzate quindi delle “squadre di impostori”[7] che hanno il compito di produrre una sorta di “Triangolazione indefinita” dove si possono prendere in analisi account diversi degli stessi eventi.
La penultima tecnica presentata è quella dei “pesci fuor d’acqua”.
Questa tecnica si mostra particolarmente utile nel caso si debba analizzare delle situazioni che possono sembrare particolarmente ovvie. L’ovvietà impedisce di affidare all’evento da analizzare il giusto peso.
Vengono utilizzati a questo proposito osservatori che trovano difficoltà in quei compiti che a noi risultano banali.
La proposta di Garfinkel
Garfinkel, citato in Schwartz, propone:
- Prendere qualsiasi cosa considerata normalmente come un fatto sociale.
- Vedere come questo è visto, affrontato dai membri della società.
- Utilizzare il punto 2 come check list nei racconti dei “pesci fuor d’acqua”.
L’ultimo metodo affrontato è quello dei “disturbatori culturali”.
Uno dei compiti che vengono affidati a questo metodo è quello di vedere come reagisce la società alla presenza di uno di questi disturbatori (Bambini, malati, vecchi, certi tipi di criminali). Questo permette di andare a creare modelli che permettano l’integrazione di questo genere di persone.
Ma ancora più interessante è vedere non tanto come la società funzioni quando ci sono loro, ma come loro funzionino all’interno della società.
Una sintesi in 7 punti
Mi sembra allora che si possano ridurre a sette i punti che mi sembrano fondamentali (e generali) per capire quali sono le caratteristiche che deve possedere l’osservazione per assumere la qualifica di partecipante.
- L’ approccio fenomenologico-ermeneutico è tipico di questo modo di lavorare, che vuol dire? E’ un modo complicato per dire soggettivo-interpretazionale, ovvero: per la prima parte ci rifacciamo a Husserl che da della parola “Fenomenologia” il significato di scienza del soggettivo e dei suoi oggetti intesi in quanto intenzionali. “…della riflessione da parte del soggetto conoscitivo su se stesso e sulla sua vita conoscitiva…”[8] Per la seconda parte utilizziamo il significato che ne da Demetrio ossia “azione interpretativa”[9].
- La soggettività deve essere dichiarata ed evidenziata, non è una ridondanza del primo punto, ma l’inizio della spiegazione dell’azione “osservazione partecipante” in quanto l’esplicitare la propria condizione è utile all’eliminazione del disturbo causato dalla presenza e dal ruolo. Generalmente l’esplicitare non è riferito ad una condizione di notorietà del ricercatore con l’ecosistema studiato ma ad una autocoscienza del ruolo svolto. Generalmente questa condizione di autocoscienza, per quanto latente, è riferita a tutti i punti.
- L’ osservatore è parte del contesto di osservazione, ossia non solo è presente, condizione necessaria ma non sufficiente, ma si integra con l’ambiente e con le persone. Diventa “normale” o meglio “naturale”.
- L’ osservatore partecipa con tutto se stesso, ovvero si fa carico delle necessità del gruppo osservato, ed è attivo nell’operare per la ricerca e per le necessità che si vengono a creare. Ma anche in senso fisico utilizza per la registrazione degli eventi ogni senso, in poche parole è un “cittadino attento”.
- Avviene una mutua modificazione tra osservatore ed osservato, questo si collega al punto due e l’individuazione di questi reciproci cambiamenti è fondamentale per trarre le conclusioni dell’osservazione. Quindi, tutti i comportamenti sono fondamentali e interessanti da porre in esame.
- I comportamenti hanno un significato solo all’interno di un contesto, quindi non posso esimermi dall’ avere una visione ecologica.
- Nella situazione di osservazione partecipante si deve assolutamente porre attenzione all’altro ed anche a sé.
[1] In Thoreau, Journal, New York 1963, cit. in Thoreau, opera in bibliografia.
[2] In Runes, op. in bibliografia, Osservazione, pag. 384
[3] In Chevalier, op. in bibliografia, Occhio, pag. 148-152
[4] Schwartz, Jacobs, op. in bibliografia, pag. 275-276 [5] pag. 278-280 [6] pag. 284-287 [7] pag. 287-288
[8] Husserl E., op. in bibliografia, Seconda Parte, Paragrafo 26, pag. 125
[9] Demetrio D., op. in bibliografia, pag. 4-5
BIBLIOGRAFIA
- Schwartz H., Jacobs J. ( 1987 ), Sociologia qualitativa, il Mulino, Bologna
- Braga P., Tosi P., (1998), L’osservazione, in Mantovani S. ( a cura di ), La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi, Bruno Mondadori, Milano, p. 84-162
- Demetrio D., (1999), Micropedagogia, La Nuova Italia, Firenze
- Runes D. D., (1995), Dizionario di Filosofia, Arnoldo Mondatori, Milano
- Husserl E., (1997), La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano
- Hinde R. A., (1984), Etologia e i suoi rapporti con le altre scienze, Rizzoli, Milano
- Chevalier J., Gheerbrant A., (1989), Dizionario dei simboli, Volume secondo L-Z, Rizzoli, Milano
Letture utili ma non fondamentali:
- Italo Calvino ( 1993 ), Lezioni americane, Arnoldo Mondatori, Milano
- Umberto Eco (1999), Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano
- Walt Whitman (1993), Foglie d’erba, Einaudi, Torino
- Henry D. Thoreau (1988), Walden ovvero la vita nei boschi, Rizzoli, Milano
Alcuni siti interessanti:
http://www.problemistics.org/corso/strumenti/osservazione.html