“Era duro, l’inverno del 1933. Quella sera, arrancando verso casa attraverso fiamme di gelo, con le dita dei piedi che mi bruciavano, le orecchie che andavano a fuoco, e la neve che mi turbinava intorno come un nugolo di suore furibonde, mi fermai di colpo. Era giunto il momento di tirare le somme. Con la pioggia o col sereno c’erano delle forze al mondo che cercavano di distruggermi.
Dominic Molise, mi dissi, aspetta un attimo. Sta andando tutto secondo i tuoi piani? Esamina attentamente la tua condizione, considera obiettivamente il tuo stato. Che succede, Dom?
Vivevo a Roper, Colorado, e invecchiavo di ora in ora. Avrei compiuto diciotto anni di lí a sei mesi, e avrei preso la maturità. Ero alto un metro e sessantadue, e negli ultimi tre anni non ero cresciuto di un solo centimetro. Avevo le gambe arcuate, i piedi a papera, e le orecchie a sventola come quelle di Pinocchio. I miei denti erano storti e la faccia lentigginosa come un uovo di uccello.
Ero figlio di un muratore disoccupato da cinque mesi. Non avendo un cappotto, mi mettevo tre golf, e mia madre aveva già cominciato una serie di novene per il vestito di cui avrei avuto bisogno a giugno per l’esame.
Signore, dissi, perché in quei giorni ero un credente che parlava con franchezza con il suo Dio: Signore, che sta succedendo? È questo quello che vuoi? E per questo che mi hai messo sulla terra? Non ho chiesto io di nascere. Non c’entravo per niente, salvo che ora sono qui e ti sto facendo domande oneste, ti chiedo i motivi, per cui dimmi, mandami un segno: è questo il premio per chi cerca di essere un buon cristiano, per dodici anni di catechismo e quattro di latino? Ho mai messo in dubbio la Transustanziazione, la Trinità, o la Resurrezione? Quante messe ho perso la domenica e le feste comandate? Le puoi contare sulle dita, Signore.
Stai giocando con me? Ti sono sfuggite le cose di mano? Hai perso il controllo? Lucifero ha riguadagnato potere? Sii onesto con me, perché sono sempre preoccupato. Dammi un segno. Vale la pena di vivere? Le cose si aggiusteranno o no?
Vivevamo ad Arapahoe Street, ai piedi della prima collina che poi cresceva a formare il lato est delle Montagne Rocciose. Si elevavano come grattacieli frastagliati, e fissavano la nostra città, una foschia azzurra e verde durante l’estate, bianca come lo zucchero in inverno, con guglie avvolte dalle nuvole. Ogni inverno c’era qualcuno che si perdeva lassú, rimanendo intrappolato in un burrone o seppellito da una slavina. In primavera la neve disciolta trasformava Roper Creek in un fiume selvaggio che portava via steccati e ponti, e che allagava le strade, ammassando fango su Pearl Street e inondando la cantina del tribunale. Un paese freddo, dal brutto carattere, il cui terreno era una lastra di ghiaccio per tutto aprile, con la neve la domenica di Pasqua, e a volte un’improvvisa tormenta a maggio: un paese pessimo per un giocatore di baseball, specialmente per un lanciatore che non toccava palla da ottobre.
Ma Il Braccio mi dava la forza di andare avanti, il mio dolce braccio sinistro, quello piú vicino al cuore. La neve non poteva fargli male e il vento non poteva ferirlo perché lo tenevo ricoperto di Balsamo Sloan, una bottiglietta che avevo sempre in tasca. Ero intriso di quel fetore, a volte venivo mandato fuori dalla classe per andarmi a lavar via quell’acuto odore di pino, ma io uscivo a testa alta, senza vergogna, ben conscio del mio destino, corazzato contro i sogghigni dei ragazzi e i nasi tappati delle ragazze.
Avevo un’andatura grandiosa in quei giorni, il portamento di un pistolero, la scioltezza del mancino classico, con la spalla sinistra leggermente calata, Il Braccio mollemente dondolante, come un serpente – il mio braccio, il mio benedetto, santo braccio che mi era stato dato da Dio, e se anche il Signore mi aveva creato figlio di un povero muratore, mi aveva però fatto un gran regalo quando aveva fissato sui cardini della clavicola quella centrifuga…”
Dominic Molise uno di noi
Inizia così 1933 Un anno terribile di John Fante (Einaudi, 2008, 9788806171438) un romanzo che a me ha dato tanto e che fino ad ora è riuscito a catturare l’attenzione di tutte le aule in cui l’ho letto e usato (in certe aule come lettura per spezzare interventi particolarmente lunghi e in altre utilizzato a pezzi per attività più specifiche). Forse riesce a catturare così bene l’attenzione perché è capace di far vivere a pieno la speranza di Dominic Molise e il suo bisogno profondo di scoprire la vita nonostante tutto quello che il mondo gli mette davanti.
Qui lo uso come spunto narrativo per introdurre l’aula ai temi della presa in carico e del potenziale individuale, di dove questo potenziale è contenuto e come riconoscere le cose sulle quali intervenire.
Il brano è funzionale allo scopo e in quell’inizio c’è la sintesi di tutto; perché quel 1933 è un anno come tutti gli altri ed è terribile soltanto per Dominic che lo interpreta con i suoi occhi di adolescente. Vi si incontrano gli ostacoli esterni e quelli interni, le cose su cui si può intervenire e quelle che restano fuori dalla sua portata – e già queste cose nelle poche righe che ho riportato paiono tantissime.
Poi c’è anche la speranza, la ricerca di una via di fuga, le possibilità che ci diamo. C’è la cura di sé e il confronto continuo col mondo fisico e non, c’è quella che pare l’individuazione di risposte adeguate alle situazioni e il dover ricredersi. C’è ancora, e smetto qui, la capacità di ridarsi forma senza perdere il contatto con quello che si è.
Con chi è stato utilizzato e cosa ne ho fatto in aula
Vista la varietà di temi che compaiono nel libro e nel brano diventa quindi di facile utilizzo. Nello specifico l’ho utilizzato per introdurre il lavoro con piccoli gruppi di persone che erano alla ricerca di un impiego da lungo tempo e avevano ottenuto scarsi risultati nel loro lavoro di scoperta.
Con quelle persone nello specifico c’era la necessità di offrire strumenti di ricerca attiva del lavoro e aiutarli ad impostare strategie di contatto con tutti quegli elementi che avrebbero favorito il loro inserimento.
Fu comunque evidente fin da subito che se da una parte c’era davvero bisogno di offrire gli strumenti minimi per la ricerca attiva del lavoro dall’altra c’era bisogno di aiutarli a riguardare e magari ridefinire la loro visione di come stavano andando le cose in quel periodo della loro vita. Capirete da soli come poter allacciare il brano questi temi, voglio invece soffermarmi su alcune domande e temi che sono venuti fuori dai partecipanti a partire dalle domande che facevo sempre dopo la lettura del brano:
- Vi è piaciuto? e indipendentemente che ricevessi una risposta positiva o meno chiedevo i motivi
- Come collegate quello che abbiamo letto alla vostra situazione?
Questi alcuni dei temi che emergevano e poi venivano affrontati e che trascrivo come le avevo appuntate:
- Dio ci da e ci toglie e anche per noi ci sono cose che sono più forti di noi
- La sua situazione a casa è molto dura e anche per me non è facile dover fare sempre attenzione a tutto, i figlioli hanno bisogni e soprattutto gli adolescenti. E poi mio marito ha da fare le sue cose.
- Alcune cose ci fanno andare avanti, a lui che voleva giocare a quello sport e noi come si fa? Penso che tutti abbiamo tante cose che non ci fanno fermare.
- Ci condiziona il fatto di essere nati qui, questo è un posto così che piano piano ci portano via tutto
- Bella non sono nemmeno io
- I suoi compagni di scuola lo evitano e a me mi è capitato che alla fine anche quando parlo con gli amici qualcuno mi ha detto che finisco sempre a parlare che io non ho un lavoro. Mi ha fatto sentire come se fossi una che si lamenta e basta, invece…
- Si fa tante domande e io non saprei nemmeno quale farmi. L’unica che mi viene è “Perché non trovo lavoro?”
- Anche noi siamo in un periodo brutto e figuriamoci se ora come ora si trova qualcosa
- Lui ha un braccio forte e noi che ci s’ha?
- …