Questa è la parte 1 di 5 degli Appunti di Orientamento
CHE VUOL DIRE ORIENTAMENTO?
Vedremo come l’evolversi delle varie teorie sulla persona vanno, insieme ai cambiamenti che colpiscono l’ambiente economico e sociale, a costruire la scena su cui acquisterà senso l’orientamento dalla sua nascita, all’inizio del secolo scorso, ai nostri giorni.
Ci introdurremo con una brevissima premessa.
Tutti sappiamo cosa è una bussola, ci indica costantemente il Nord permettendoci di individuare gli altri punti cardinali e, di conseguenza, la direzione.
Questo non vuol dire che il Nord è la nostra direzione anzi, è possibile che la direzione da prendere sia addirittura quella opposta.
Come erano fatte, tempo fa, queste bussole? Quante definizioni per una parola? Com’è cambiato nel tempo il suo significato?
Sono due domande che è necessario porre prima di entrare nel merito dell’orientamento narrativo.
Le cose che sono scritte qui sotto sono appunti buttati giù qualche anno fa. Devono essere presi come tali quindi pieni di refusi, sbaffature, imprecisioni, contraddizioni. Ripeto che sono cose buttate giù così.
L’ORIENTAMENTO AI TEMPI DEI NONNI DEI NOSTRI NONNI
C’era bisogno ai tempi dei nostri trisnonni, diciamo da prima della rivoluzione industriale all’inizio del novecento, di fare e ricevere orientamento?
Non sapremmo rispondere con certezza, quello che però potremmo dire è che l’architettura sociale di tipo rurale o artigianale – i bisogni delle persone, l’educazione, la famiglia – favoriva il passaggio dei mestieri all’interno delle mura domestiche.
Non c’era tanto da scegliere, solitamente i passaggi erano lineari e generalmente al padre succedeva il figlio – padre contadino e figlio contadino, padre artigiano e figlio artigiano – e la necessità era soprattutto quella di apprendere quel mestiere. Per le donne poi era sovente assicurato un posto in diretta discendenza dalla madre.
Quello che era richiesto era di apprendere un mestiere e quelle modalità operative sarebbero rimaste sostanzialmente invariate per il resto della vita.
Con l’avvicinarsi ai primi del novecento l’elemento vocazionale, forse per l’accrescersi delle istanze educative ed le nuove necessità sociali, comincia sempre di più a farsi largo.
L’UOMO GIUSTO AL POSTO GIUSTO
Siamo all’inizio del ‘900 e comincia ad affacciarsi, nei maggiori paesi industrializzati, il bisogno di applicare in maniera scientifica e sistematica modelli di orientamento.
Questi, avvalorati dalla psicologia sociale, avrebbero consentito di riconoscere e ordinare ciò per cui ciascun individuo fosse predisposto.
Le basi psicologiche dell’orientamento pongono attenzione, come abbiamo detto, alle attitudini, cioè a quelle caratteristiche che consentono ad ogni soggetto, attraverso l’addestramento, di acquisire nuove abilità e nuove conoscenze.
È l’inizio della società tecnico-industriale che richiede un livello superiore di conoscenza dell’universo del lavoro, maggiori quantità di informazioni in un mondo produttivo dove i percorsi possibili vanno a moltiplicarsi e a complessificarsi.
C’è bisogno di ricoprire nuovi ruoli, l’industria attiva nuovi processi produttivi che richiedono nuove forme professionali. Pensiamo alle catene di montaggio che Henry Ford, quello delle macchine, introduce nelle aziende.
Non si parla più di mestiere ma di impiego accentuando la centralità del posto di lavoro rispetto all’operatore.
Come diceva il titolo di questo paragrafo si guardava all’orientamento come alla soluzione di un puzzle, c’erano degli spazi vuoti che dovevano essere riempiti, l’orientatore doveva soltanto individuare i pezzi adatti e inserirli.
C’era poco spazio per i giovani di decidere e gli aspetti più generali della psicologia dei soggetti era marginale.
Tale ricerca era certamente tesa alla soddisfazione delle necessità delle persone ma, innanzitutto, voleva favorire lo sviluppo dell’economia della nazione. Ripetiamo che è il posto ad essere centrale, è l’interesse economico.
Tali metodologie troveranno sfogo, e avranno la loro massima applicazione, a cavallo tra le due guerre mondiali in ambito militare.
Questo tende ad esaltare come, in un ambiente fortemente gerarchico, l’applicazione di tali forme di orientamento fossero privilegiate.
La guerra non è una forma di vocazione, c’è soltanto da obbedire a degli ordini, chi sa sparare ai fucili, chi sa cucinare al rancio, chi pilotare un aereo in aviazione. Non c’è molto tempo per apprendere nuove cose. Un posto un uomo.
ATTITUDINI, MOTIVAZIONI E BISOGNI
Soltanto a cavallo tra gli anni cinquanta e settanta appare anche nell’orientamento uno degli strumenti più conosciuti, il colloquio. Anche questo è un sintomo della centralità che lentamente va ad occupare il soggetto; c’è bisogno oltre che di conoscere le sue attitudini anche di indagare le sue motivazioni e i suoi bisogni.
Comincia a farsi vedere la necessità di cercare gli elementi più profondi della personalità dei soggetti in modo da includerli nella costruzione di quel progetto.
LA DIMENSIONE EDUCATIVA E L’ORIENTAMENTO PER TUTTA LA VITA
È soltanto negli ultimi trent’anni che cominciamo a individuare l’orientamento come una possibilità di accompagnamento offerta alla persona nella costruzione di un proprio progetto di vita mediante la valutazione di appropriati percorsi scolastici e lavorativi.
La prassi dell’orientamento è oggi assai più diversificato, l’evoluzione rapidissima che ha subito la società ha richiesto in primo luogo di non limitarlo al passaggio dalla scuola al lavoro. Si parla difatti, esattamente come si fa per l’educazione, di offrire percorsi di orientamento che siano utilizzabili dai soggetti in ogni momento della vita e non di eventi sporadici che in maniera predeterminata vengano messi a disposizione.
Questo perché si guarda all’uomo come un essere che attraversa in maniera attiva dei ruoli, professionali e sociali per esempio, strettamente connessi e non come un essere scisso tra ruoli assolutamente separati.
La comprensione di questa forte relazione richiede che le persone siano in grado di definire in maniera autonoma le direttrici della propria crescita.
ANCORA PIÙ VICINI
Ci è difficile comprendere l’agire delle persone ignorandone le intenzioni e contemporaneamente capire queste ultime se ignoriamo gli scenari nei quali queste avvengono.
Certe parole, nella nostra contemporaneità, assumono un forte valore sia a livello emotivo che razionale.
Pensiamo a vocaboli come flessibilità, mobilità, globalizzazione, pensiamo a quali sono le emozioni che ci provocano, a quali sono le sensazioni che proviamo nel momento in cui ci rendiamo conto di essere immersi in una società che sul loro significato si fonda.
Adesso fermiamoci e razionalizziamo, per quanto ci è possibile, tutto questo.
Siamo sicuri di conoscere bene i significati di quelle e di altre, innumerevoli, parole? Siamo sicuri che il senso, che noi pensiamo di conoscere, non sia più sfuggente ed etereo di quanto crediamo?