Esiste una stretta similarità tra quelle che sono le sensazioni dell’uomo in formazione e quelle che sono le emozioni dell’uomo che vive questi tempi. (L’uomo si dibatte tra sentimenti ambivalenti positivi e negativi)
Macro-organizzazioni e micro-organizzazioni si incontrano su due versanti, due categorie del postmoderno, la contraddizione e la simultaneità uniti dai paradigmi narrativi che veicolano nuovi tipi di costruzione del sapere.
Il mondo/organizzazione parla di povertà di certezze e verifica la scomparsa di riferimenti sicuri all’interno degli ambiti di vita/lavoro.
Esiste una via interpretativa privilegiata irta di pericoli e difficoltà e una delle possibilità di dipanare almeno in parte queste difficoltà è quella di contraddire in parte Mottana ed essere, in fase di teorizzazione dell’evento formativo, in fase di definizione delle proprie basi teoriche, chiaramente orientato.
La divisione che faccio non è così netta come può apparire.
In realtà esiste una similarità nei primi autori ma viene scelto ognuno di questi personaggi perché permette di illuminare meglio un certo punto.
Dahrendorf per le cause, Morin per definire gli scopi, prenderemo Lyotard come punto di partenza per definire il perché di un metodo.
Sentirsi non adeguati
Al giorno d’oggi è diffuso il senso di inadeguatezza.
La globalizzazione richiede forme di iperspecializzazione per garantire “una vita dignitosa” e troppo spesso (leggendo Morin diremo per fortuna) le persone non godono di possibilità di formazione adeguata ad iperspecializzare.
Quindi la globalizzazione e la modernità portano (per motivi economici e sociali) ad una destabilizzazione di quelle che sono le libertà e le possibilità che ciascuno pensava di avere.
Avviene allora la sottomissione alle leggi e all’economia lasciando decadere quelle che sono le variabili “umane” della bontà della vita.
La distanza tra quelle che sono le aspirazioni di ciascuno e quelle che sono le opportunità che da il mondo che ci circonda aumenta.
Ci sono quindi delle sfide che vanno accettate per poter ridurre questo divario.
Oggi la sfida è la bolgia di informazioni frammentate che servono solo per scopi tecnici ma che non riescono a fornire alcun senso complessivo, alcuna direzione, alcuna saggezza.
Le sfide di Edgar Morin
Morin propone allora tre sfide:
- La sfida culturale: dove si confronta sapere umanistico (che affronta la riflessione sui fondamentali problemi umani e favorisce l’integrazione delle conoscenze) e la cultura tecnico-scientifico (che separa i campi, suscita straordinarie scoperte ma non una riflessione sul destino umano e sul divenire della scienza stessa).
- La sfida sociologica: l’informazione è una materia prima che la conoscenza deve integrare e padroneggiare; la conoscenza deve essere costantemente rivisitata e riveduta dal pensiero; il pensiero è oggi più che mai il capitale più prezioso per l’individuo e la società.
- La sfida civica: Il sapere è diventato sempre più esoterico (accessibile ai soli specialisti) e anonimo (quantitativo e formalizzato). Si giunge così all’indebolimento del senso di responsabilità (poiché ciascuno tende ad essere responsabile solo del proprio compito specializzato) ed all’indebolimento della solidarietà (poiché ciascuno percepisce solo il legame organico con la propria città e i propri concittadini). Siamo cioè di fronte ad un deficit democratico.
La necessità allora è quella di una ristrutturazione del sapere in modo che questo cambiamento si ripercuota direttamente nel fare e nell’ essere.
Qual è il modo più efficace per analizzare questa proliferazione degli ibridi?
Queste analisi che si riferiscono a macrostrutture come possono essere ridotte alla formazione in microstrutture?
Perché non è conveniente utilizzare metodologie quantitative (o almeno non solo queste)? Perché si rischia di rimanere fossilizzati rilevando la realtà con tecniche vicine a quelle scienze positive che ci hanno portato alla situazione attuale.
Perché allora è conveniente utilizzare delle metodologie qualitative e tra queste utilizzare delle tecniche narrative? Perché ci permettono di percepire gli aspetti umani delle diverse organizzazioni.
Metodi narrativi
Per avvicinarsi al metodo narrativo una delle definizioni più efficaci è quella di Lyotard.
La natura del sapere “narrativo”:
- Non è conoscenza:
- Conoscenza è l’insieme degli enunciati che denotano o descrivono degli oggetti, escludendo qualsiasi altro enunciato, e suscettibili di essere dichiarati veri o falsi
- Non è scienza:
- Gli stessi motivi cui sopra più:
- Le condizioni di accesso agli oggetti cui si riferiscono siano ricorrenti
- Che sia possibile decidere se i singoli enunciati appartengono o meno al linguaggio considerato pertinente dagli esperti.
- Gli stessi motivi cui sopra più:
Ma il sapere è qualcosa di più che comprende oltre gli enunciati denotativi anche l’idea di saper essere (saper fare, saper ascoltare…).
In breve, il sapere è definibile come: “… una “formazione” estesa di competenze, è la forma unitaria incarnata in un soggetto composto dalle diverse specie di competenze che lo costituiscono.”
Altra caratteristica del sapere: “conformità ai criteri accettati nell’ambiente formato dagli interlocutori del “sapiente””; non in termini di sapere scientifico, ma in termini di “costume”, in termini di estetica.
Dagli studi di etnolinguistica
Rifacendosi agli studi di etnolinguistica, possiamo osservare quattro caratteristiche:
- Le storie raccontano delle “formazioni” positive o negative. ”Da una parte questi racconti consentono dunque di definire i criteri di competenza propri della società in cui sono raccontati, dall’altra di utilizzare tali criteri per valutare le presentazioni che in essa si realizzano o possono realizzarsi.
- “Il racconto definisce o applica criteri di competenze che appaiono intrecciate a formare un tessuto serrato, che è appunto quello del racconto, e organizzate in una prospettiva d’insieme che caratterizza questo tipo di sapere”
- “Le posizioni narrative”
- Il sapere narrativo influenza il trascorrere del tempo legando in maniera inestricabile quello che è il passato con il futuro. (Storia e progetto)
Organizzazioni come somma delle narrazioni dei membri dell’organizzazione
Posso intenderlo così perché se non esistessero le persone a dare (in maniera biblica) il nome delle cose, queste non avrebbero senso. Le implicazioni affettive vengono di conseguenza.
Domande scientifiche e problemi vitali
Calidoni riportando Wittengstein riporta: “Noi sentiamo che, anche quando tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati”.
Possiamo pensare allora a come il narrare storie, l’ascoltarle ed il riflettere su queste storie possa permettere (riprendendo Lyotard) di effettuare un incontro nel tempo e del tempo in cui le consuetudini rappresentano il passato, gli eventi casuali il presente, e le tendenze, gli obiettivi il futuro.
Sentimento di inadeguatezza dicevamo all’inizio.
Ma siamo sicuri che questo sia soltanto un male? Possiamo considerare l’inadeguatezza come quelle febbri che ci prendevano da ragazzini e dopo due giorni passavano lasciandoci più alti?
E’ probabile, importante è interpretare l’inadeguatezza non come il normale che analizza il border line ma sul come mai il mondo mi fa sentire inadeguato.
Perché questo è difficile?
Perché è il mondo (il mondo è la generalizzazione del più forte) che comanda, che decide quali sono gli schemi narrativi con i quali mi posso confrontare, e questo avviene anche dentro all’azienda, all’ufficio pubblico, alla cooperativa, alla classe.
Succede quindi che la mia narrazione avviene secondo schemi abbastanza prevedibili. (Spiegare che sono prevedibili in quanto per conoscere l’azienda debbo prima conoscere quelle che sono le narrazioni dei proprietari e della dirigenza – esempio di Kaneklin – Scaratti in “Formazione e Narrazione” – “Narrazione e identità collettiva” di Kaneklin – Isolabella).
Può diventare allora interessante quanto dice Garfinkel rispetto al rifiutare la cooperazione scardinando l’ordine dettato dalle circostanze.
Uno dei metodi più efficaci è quello di chiedere spiegazione di quante più cose ci lasciano nel dubbio senza dare niente per scontato (diventare dei soggetti fastidiosi).
La necessità è quella di sostituire ad un principio che separa, semplifica e generalizza, un principio che riconosce e congiunge, utilizziamo per fare questo percorsi dialogici (che consentono di mantenere la dualità in seno all’unità), percorsi come quello del ricorso di organizzazione (secondo cui i prodotti e gli effetti sono contemporaneamente cause e produttori di ciò che li produce) ed un principio ologrammatico (arricchire il tutto attraverso le parti e le parti attraverso il tutto).
Per muoversi in questo circolo (in quanto tutti e tre i principi sono correlati) si necessita di abbandonare quelle che sono le certezze del fare positivista per far ricorso a tecnologie relazionali.
Avviene in questo modo che i processi formativi, abbandonata quella certezza che anche le scienze “esatte” vanno ad abbandonare, debbano essere interpretati secondo logiche di incertezza o meglio di continua incertezza per favorire dinamiche di ristrutturazione del vissuto che favoriscano una continua riprogettazione, come la tela del ragno continuamente ingrandita, riparata, ricostruita.
Secondo Morin il processo di formazione rappresenta un procedimento complesso che produce autonomia e che quindi implica un soggetto inteso come “sistema che crea le proprie determinazioni e le proprie finalità”1.
Perché il mondo che ho citato sopra (quel mondo che è il tavolo del Risiko dove si mettono in gioco strategie e rapporti di potenza) si interessa non delle aspirazioni personali (perché è antieconomico) ma dei possibili mondi funzionali nei quali inserire classi di persone.
Categorie ed eccesso di semplificazione
Vengono allora create categorie: generazioni, lavoratori, famiglie, etnie… che non ci rappresentano pienamente ma che ci schematizzano, che non ci danno soddisfazione (come dopo pranzo che si è pieni, ma ci manca un qualcosina, il dolcino, il caffè…) ma ci fanno sentire parte di una comunità che ci culla, ci protegge, ci consiglia, ci informa.
Ma al contempo ci sintetizza, ci rende caricature, rappresentazioni naif di quello che siamo, e ci semplifica dandoci dritte su come vederci, cosa volere e quale è la nostra collocazione nel mondo.
Si fa largo a questo punto, come centralità del tutto formativo, una parola oggi abbastanza di moda: “ecologia”.
Ecologia perché diventa chiaro come l’incontro di due eventi complessi (l’uomo ed il suo ambiente) possa svolgersi soltanto in un quadro che fa della complessità il punto cardine della vita stessa.
C’è necessità di costituire un modello di pensiero che possa godere al contempo di creatività e di criticità, procedurale e sostanziale, che sia in grado non solo di risolvere problemi ma anche di creare problemi.
1 Morin. Come da Bibliografia.
BIBLIOGRAFIA
- Jean-Francois Lyotard (1997), La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano
- Edgar Morin (2000), La testa ben fatta, Raffaello Cortina, Milano
- Ralf Dahrendorf (1996), Quadrare il cerchio, Laterza, Roma – Bari
- Paolo Calidoni (2000), Didattica come sapere professionale, Editrice La Scuola, Brescia
- Paolo Mottana (1998), Formazione e affetti, Armando Editore, Roma
- E.C. Cassani, A. Fontana (2000), L’autobiografia in azienda, Guerini, Milano
- C. Kaneklin, G. Scaratti (1998), Formazione e narrazione, Raffaello Cortina, Milano
- Schwartz H., Jacobs J. (1987), Sociologia qualitativa, il Mulino, Bologna